Tutti gli usignoli nascono per cantare, vivono studiando musica e muoiono trillando.
Ma
una volta venne al mondo una bambina anormale.
Si
chiamava Bel Canto e il suo primo vagito fu un gorgheggio acutissimo, ma
stonato.
I
genitori del piccolo mostro si sentirono trafiggere il cuore.
<Cosa
facciamo?>, chiese lui sperduto.
<Corro
a chiamare il dottore>, rispose lei trattenendo le lacrime.
Bel
Canto li guardava alternativamente coi grandi occhi neri. Era bellissima.
<Se
mi guarite la bambina>, disse mamma
usignolo al medico chirurgo del bosco, <Vi darò la collana d’oro che mi ha
regalato mio marito il mattino del matrimonio>.
Il
vecchio fece un movimento storto e sentì il solito reumatismo nelle ali.
<E’
stonata al cento per cento, signora>, rispose con tono professionale,
<non c’è alcuna speranza>.
Il suo destino era l’immediata eutanasia, legalmente imposta
dallo stato a queste orride e rarissime creature, oppure poteva essere allevata
dai genitori fino alla maggiore età , ma a diciotto anni e un giorno sarebbe
stata ricoverata per sempre alla clinica degli Irrecuperabili.
Crebbe bella e buona, anche se isolata da
tutti perché gli usignoli, per legge, non possono ascoltare stonature.
Studiava volentieri e suo maestro privato
fu il gatto Mustafà, visto che nessun usignolo, mai, per nessuna somma al
mondo, avrebbe accettato di dare lezioni ad una persona stonata.
Egli era molto religioso e pretese che l’usignola conoscesse a
memoria i Sacri Testi:
<Molte
migliaia di anni fa>, raccontava lisciandosi i baffi, <la prima coppia di
usignoli cantava in maniera divina, spontaneamente, senza studio alcuno, ma
ormai il dono del canto celeste è perduto per sempre>.
<E
lei sa, signor maestro, cos’era che li faceva cantare così?>, chiedeva
l’usignola, che si struggeva per il desiderio di gorgheggiare e non poteva.
<Cantavano
perché si amavano>, rispondeva Mustafà affilandosi il minaccioso artiglio
che portava al mignolo.
<Che
cos’è l’amore, Mamma?>, domandò quella sera l’usignola, che era molto
giovane e ignorante.
<L’amore
è fare del bene a tutti senza avere niente in cambio>.
<Anche
a quelli che mi pigliano in giro perché sono stonata?>.
<Soprattutto
a loro, è quello il vero amore.
E
fra cent’anni, quando morirai, potrai cantare per sempre con me, i fratelli e
le sorelle, nel Paradiso degli usignoli, e non stonerai mai più >.
Fu così che quella notte Bel Canto sognò
il Paradiso.
Adesso l’usignola portava nei capelli, lunghi e sciolti sulle
spalle, un fiocco rosso un po’ meno vistoso di quando era bambina.
Se avesse solo potuto cantare almeno un
po’, almeno sottovoce, almeno qualche volta, quanto sarebbe stata felice. Si
sfogava danzando nel sole.
Da
qualche tempo, tuttavia, le piaceva starsene da sola per pensare.
Le
era capitata una cosa stranissima e nuova.
Si
era innamorata.
Lui
era il figlio maggiore del medico chirurgo del bosco, un giovane bellimbusto,
un certo Giuseppe Fa Diesis, tenuto d’occhio dalla polizia per avere formato,
nascostamente, un gruppo rock proibitissimo dalle tradizioni melodiche
usignolesche. Era un pittore da strapazzo, portato su dalla critica, e si erano
conosciuti ad una mostra d’arte.
L’aveva subito corteggiata, ma quando a
lei, emozionatissima, era sfuggito un ciùùùùù stonato, era andato a deriderla
di notte, facendole una serenata sotto la finestra, insieme agli amici degni di
lui :
<C’era
una volta un’usignolina, ch’era davvero una bella bambina, grandi occhi neri, boccuccia
a cuore, fiocco di seta fra i riccioli bruni, quant’era bella l’usignolina, era
davvero una bella bambina, era stonata l’usignolina, era stonata l’usignolina,
era stonata, stonata, stonata…>.
Papà
usignolo e i fratelli di Bel Canto si rimboccarono le maniche e la conseguente
partita di pugilato fruttò a Giuseppe Fa Diesis un vistoso occhio nero.
Il giorno in cui compì diciotto anni, mamma e papà usignolo
dettero un gran ballo per lei, ma il mattino seguente, con la morte nel cuore,
l’accompagnarono alla clinica degli Irrecuperabili, dove dovettero lasciarla
per sempre. Ogni mese avrebbero potuto scriverle e ricevere una lettera da lei,
ogni anno le avrebbero fatto una visita di due ore, niente telefonate né
contatti attraverso Internet e, soprattutto, niente telefonini ai degenti, in
un lampante
tentativo di isolarli per evitare qualsiasi loro intromissione nella società
normale.
Quella
sera, a cena, l’usignola si vide circondata da una stranissima compagnia di
gente tutta anormale, chi per un verso e chi per l’altro. Erano semplicemente
stupefacenti.
Di
fronte a lei stava seduta una coniglia coraggiosa, a destra le farfalle
scolorite, a sinistra l’aquila che non sapeva volare pur avendo le ali come
tutte le altre aquile, e poi c’erano le zanzare e le vespe senza pungiglione,
pavoni e pavonesse senza coda, la formica sprecona e il pesce che non sapeva
nuotare.
<Come
ti chiami? Come ti chiami? Come ti chiami?>, le zufolò all’orecchio una
vecchia zanzara senza pungiglione.
<Mi
chiamo Mimma>, mentì l’usignola. Nessuno, mai più, avrebbe saputo il suo
vero nome.
<Mimma,
che nome buffo>, commentò una vespa senza pungiglione contorcendosi dalle
risa.
D‘un tratto si sentì uno stridio, un chiasso, un arruffio
d’ali: erano entrati a volo i pipistrelli bianchi, che presero rumorosamente
posto ai tavolini. Erano tutti nervosi e sgarbati.
“Ma
perché non provano a farsi il bagno nell’inchiostro di china?“ pensò
l’usignola,
“diventerebbero
neri come i loro compagni e sarebbero felici“.
L’indomani quel povero cane del direttore a momenti si faceva
venire l’attacco di tachicardia quando vide che i pipistrelli, ormai tutti
guariti, ancora stranamente gocciolanti, infilavano la finestra e se ne
andavano senza dire ‘ ciao’.
<E’ stata l’usignola>, l’informò la
domestica Brigida, una farfalla stagionata, con le ali a pezzi, capocameriera
della clinica e grandissima pettegola, <gli ha fatto il bagno
nell’inchiostro di china>.
<Questa
cretina mi fa perdere i clienti>, gridò il direttore battendo la zampa sulla
scrivania. E la sera, quando uscì per la solita passeggiatina sotto gli alberi
e incontrò l’usignola, non le rispose al saluto.
Non sempre, anzi quasi mai , all’usignola era facile
addormentarsi. Ripensava a come cantavano i suoi genitori coi fratelli e a
quando danzavano tutti insieme mentre lei batteva il tempo con le ali : era
l’unica cosa che sapesse fare.
Quella
notte c’era la luna piena, pacioccona, allegrissima e curiosa. L’usignola uscì
dalla finestra a volo felpato e incontrò la coniglia Iolanda, che piangeva e
singhiozzava appoggiata contro un albero. Le era arrivata una lettera disperata
del fidanzato Ciccino e voleva tentare la fuga.
<Ma
ti riprenderebbero subito coi cani, non hai paura?>, chiese l’usignola
preoccupata.
<Io
ignoro la paura>, affermò Iolanda.
<Potresti
fingere>, suggerì l’usignola. E così, l’indomani, la coniglia svenne più
volte, gridando a squarciagola e sostenendo di spaventarsi ora per il fruscio
minaccioso del vento, ora per l’umidità sospetta dell’erba, ora per gli strani
colori del sole fra le nuvole, ora per la porta che si apriva o si chiudeva
cigolando. Fu un’attrice consumata e il direttore, guaendo esasperato, si
affrettò a dimetterla credendola guarita. Iolanda se ne andò dimenticandosi
completamente di salutare l’usignola. Si sposò senza nemmeno mandarle una
partecipazione.
Tra Mimma e il pesce che non sapeva nuotare era sorto un
amore: <Vorrei baciarti>, le disse lui un bel mattino.
<Anch’io>,
rispose sinceramente l’usignola.
<Come
facciamo? Non posso muovermi>, affermò mortificato il pesce rosso diventando
scarlatto dall’emozione e dalla vergogna.
<Cerca
di venire alla superficie>, gli disse lei, <io mi abbasserò e ci
baceremo>.
Fu
così che gli riuscì di muovere le pinne e, d’un tratto, imparò a nuotare. Se la
squagliò via a stile libero e di lui l’usignola, accorsa a salutarlo, vide
soltanto un codino guizzante in lontananza.
L’usignola aveva sempre più insonnia. “Nessuno mi vuole bene”,
pensava quella sera rigirandosi nel letto. Le era venuto il mal di testa a
furia di trattenere le lacrime, infine decise di farsi un infuso di fiori di
camomilla zuccherato col miele.
Mentre
si avviava verso la cucina, sentì qualcuno che piangeva nel buio. Aprì la luce
e vide l’aquila che non sapeva volare, era alta, bruna, bella e disperata.
<Aiutami,
aiutami>, incominciò ad invocarla.
<Perché
non provi ad agitare le ali ?>, disse Mimma, com’era logico.
<O
volare o morire>, esclamò l’aquila, e si buttò giù dalla finestra.
Dapprima
cadde, all’ultimo secondo mosse le ali, decollò, ingranò la quarta, la quinta,
la sesta, difatti le aquile hanno moltissime marce, sempre seguita
dall’usignola, che l’incoraggiava, infine a braccia spalancate, inebriata di
gioia, filò via verso il pizzo di una montagna abbandonando l’usignola in un
vortice di vento freddo e dispettoso mentre la luna, con un baffo di nuvola
sulla bocca, osservava interessatissima.
<Non
lasciarmi qui da sola, ho paura>, gridava invano l’usignola ruzzolando a
destra e a sinistra impietosamente.
L‘indomani dovette rimanere a letto, col termometro nel becco
e il raffreddore. Ricevette numerose visite.
<Insegnami
a diventare una vera formica risparmiatrice come tutte le altre> pregò
umilmente la formica sprecona.
<Non
vedi come siamo spente? Trova i colori per le nostre ali>, piagnucolarono le
farfalle scolorite.
<Devi
procurarci assolutamente una ruota>, dissero i pavoni senza coda con tono
sottilmente provocatorio.
<Siamo
sicure che, invece, riuscirai a guarirci per prime>, sciamarono le zanzare e
le vespe senza pungiglione con sorrisetti adulatori.
Appena si sentì meglio, Mimma uscì a farsi una passeggiata.
Era il tramonto arancione e violetto, il sole, assonnato, sbadigliava.
L’usignola
si fermò tra verdissime e gentili foglie, si guardò attorno svagata e,
all’improvviso, le venne un’idea:
<Mi
regaleresti un poco dei tuoi colori per dipingere le farfalle?>, chiese con
garbo alla natura. Tutti furono generosi e, con la tavolozza traboccante di
tinte preziose, l’usignola si mise a creare fantasiosi ghirigori sulle ali
delle farfalle, che appena pronte, senza ringraziarla affatto né salutarla,
correvano subito via ad ammirarsi in tutti gli specchi.
I pavoni ne furono gelosi, si infiocchettarono più del solito
e, tutti eleganti, presentarono ricorso alla direzione della clinica. In quanto
alle zanzare e alle vespe senza pungiglione, fecero una zufolante
manifestazione contro l’usignola in pubblica piazza, esibendo cartelli e
urlando slogan.
Intanto
Mimma, almeno, riuscì a fare entrare nella durissima zucca della formica
sprecona, tutto a memoria, il manuale della perfetta risparmiatrice ed anche
lei venne dimessa guarita col massimo dei voti, ma non la ringraziò né le disse
‘ciao’.
Quella notte l’usignola insonne sentì tramestio, deboli
miagolii e strazianti gemiti : erano stati arrestati due gatti, Cicerone e
Macchietta, colpevoli di avere ospitato, tutti insieme, orfanelli di gatti,
cani, topi e uccellini, che vivevano contenti nella stessa casa senza odiarsi
come le leggi prescrivevano.
“Dovrebbero
fingere di aver paura dei cani e almeno di mangiarsi i topi, non dico gli
uccellini“, pensò l’usignola rabbrividendo. “Domani gliene parlo“, decise con
un sospiro, “anche se pure loro se ne andranno liberi e felici senza salutare“.
La
notte sognò di cantare a gola piena, liberamente, in un’estasi di musica
perfetta, insieme a mamma, papà, i fratelli e le sorelle. C’erano tanti
arcobaleni di luce in movimento e forse quello era il Paradiso.
Quando
il vecchio cane vide i due gatti sfuggire da lui terrorizzati e seppe che
correvano selvaggiamente appresso ai topi, dovette considerarli guariti.
Schizzarono via nella foresta, strettamente abbracciati, senza voltarsi
indietro.
Il direttore era semplicemente furente e ormai vicino
all’idrofobia. La clinica stava diventando vuota. Per sua fortuna il giorno
seguente venne arrestato Giuseppe Fa Diesis, che siccome aveva il vizio di
girare in motocicletta senza casco, era caduto, aveva battuto la testa ed aveva
completamente perduto il senso del ritmo armonioso. Tre poliziotti l’avevano
sentito cantare scompostamente e si erano affrettati a legarlo come un salame e
trasportarlo lì di peso.
Il
primo pensiero che le venne appena lo vide fu”Maleducato, ben gli sta“ .
Ma
subito se ne pentì e andò a fargli un sorriso da dietro le sbarre della
finestra della cella imbottita nella quale chiudevano i pazzi furiosi.
Anch’egli
la riconobbe e le accennò un saluto.
L’indomani mattina
l’usignola si fece tutta bella : camicetta di sangallo e gonna di lino rosa.
All’ultimo momento strinse di un buco la cintura e, respirando a stento, si
apprestava a fargli visita, quando qualcuno bussò alla porta della sua stanza.
Era
la farfalla Brigida, con un rocchetto di filo di ragno, che le chiese di
rattopparle le ali per poi dipingerle coi colori della natura.
Aveva
una bella faccia sorridente e onesta che l’usignola non le aveva visto mai.
Ci
volle tutta la mattinata, con quella cintura che le strizzava la vita e una
fame da lupi perché non le aveva dato neanche il tempo di fare colazione.
Verso
l’una, con la camicetta macchiata di vari colori, l’usignola si precipitò in
sala da pranzo e stava per mettere in bocca la prima cucchiaiata di pasta e
fagioli, quando restò a becco aperto : Giuseppe Fa Diesis, calmissimo, stava
seduto davanti a lei, aveva finito il primo piatto e non la degnava di uno
sguardo.
In
quel momento, dalla finestra spalancata, si vide la farfalla Brigida, che se ne
volava via a testa alta seguita da un codazzo di ammiratori. Le ali erano
stupende. “ Speriamo, almeno, che trovi marito e non torni più qui “, pensò
l’usignola.
Quella sera Giuseppe Fa Diesis tentò il suicidio buttandosi
nel pentolone dove bolliva il brodino per la cena. L’usignola, che si trovava
in cucina per farsi la solita camomilla, riuscì a tirarlo fuori bruciandosi a
sua volta.
Le cuoche chiamarono soccorso. Erano tre porcelline rosa e
tonde, che in quel momento si strappavano i capelli dalla paura.
Accorsero
le cavallette con le lettighe e finirono ricoverati lui nell’infermeria degli
uomini e lei in quella delle donne. Il sole li andava alternativamente a
visitare.
<Sono innamorato dell’usignola>, confessava Giuseppe Fa
Diesis tutto rosso di emozione.
<Non dire assurdità>, rispondeva sostenuto il sole.
<Sono innamorata dell’usignolo>, confessava Mimma a
bassa voce, tutta pallida.
<Non ci pensare, piccola>, rispondeva affettuosamente
il sole.
<Come faccio a spegnere questo amore, io che sono fatto di
fuoco?>, chiedeva preoccupatissimo il sole all’amica nuvoletta.
<Vuoi che li bagni io? Forse basterà>, rispose
candidamente lei.
Guarirono entrambi e cercavano di evitarsi perché agli
irrecuperabili il matrimonio è legalmente proibito per non deteriorare la
specie con figli scemi, ma un giorno, per caso, si videro in giardino, accanto
alla folta siepe di pitosforo, che girava tutt’attorno alla clinica.
<Eccoli, sono lì>, gridò la nuvoletta, si mise a
piangere e li bagnò.
<Ripariamoci nella siepe>, sussurrò Giuseppe Fa Diesis
prendendola per un braccio.
Il cuore dell’usignola sembrava una bomba a orologeria pronta
a scoppiare.
<Oh, gli sposini, gli sposini !>, dissero tutti i
piccoli fiori della siepe, <verrete a vivere qui ?>.
<Mimma, io ti amo>, si dichiarò Giuseppe Fa Diesis
cascando in ginocchio davanti a lei perché all’improvviso gli cedettero le
gambe, <sposiamoci in segreto e nascondiamoci per sempre>.
<Ma che dici? Come potremmo vivere sempre nascosti ?>,
chiese lei sudando copiosamente.
Egli non le mollava la mano, sulla quale aveva appoggiato la
fronte bruciante. <Se tu mi lasci sono un uomo morto>, sussurrò sempre a
testa bassa.
<Noi possiamo essere soltanto amici>, rispose
l’usignola.
Era sempre meglio di niente. Uscirono mentre tutti quei
fiorellini incoscienti ridevano loro in faccia, il sole volle informarsi:
<Che avete fatto lì dentro ?>.
E loro due, in coro, risposero: <Ci siamo riparati>.
Intanto il vecchio cane mandò a chiamare l’usignola Mimma nel
proprio studio. Era più arrabbiato che mai.
<Tu!>, urlò puntandole contro il dito indice della sua
zampaccia pelosa, <tu ci hai
rovinati>.
L’informò convulsamente delle proteste varie in corso da
parte dei pavoni senza coda e delle vespe senza pungiglione.
La vespa Serafina Cativella aveva espressamente parlato con
lui poco prima, in veste di delegata. Perché gli altri erano guariti e loro no?
O tutti o nessuno.
<E’ colpa tua>, strepitava il direttore, <finirò
ammanettato. Tu hai guarito tutti gli inguaribili. Sono venuti i giornalisti e
la televisione, ti vogliono intervistare. Mi manderanno all’ultimo manicomio. E
dire che stamattina le mie guardie avevano avuto un bel colpo di fortuna e
avevano acchiappato l’agnello furioso. Se solo riuscissimo a prendere la
tartaruga Edvige, che corre sempre, e la colomba infedele, potrei rifarmi una
vita. Quelli non li guariresti per davvero>.
“E perché no“ , pensò l’usignola, “se l’agnello mangiasse il
miele diventerebbe dolce, se alla tartaruga attaccassi delle ventose alle zampe
non potrebbe correre più e se la colomba infedele si innamorasse diventerebbe
fedelissima, ci giurerei“. Tuttavia si guardò bene dal dire parola di tutte
queste cose che le giravano in testa, <Ma per la ruota dei pavoni non so
come fare>, le scappò. <Fuori!>, urlò a questo punto il direttore,
<vattene, stupida usignola che non sa cantare>.
Non c’era offesa più grande. Con gli occhi pieni di lacrime,
Mimma scappò via e si buttò per le campagne e il bosco a volo forsennato.
Sfinita, si sedette un momento accanto a un roveto fissandolo
senza vederlo.
Una spina la punse. <Ahi>, fece l’usignola leccandosi
il dito.
<Ciao>, disse la spina. Era giovane e bionda come le
sue gemelle, erano tutte regolarmente arruolate nell’esercito del roveto ed
indossavano una divisa militare azzurra.
All’usignola venne un’idea strabiliante: <Mi daresti un
po’ delle tue spine?>, chiese educatamente al roveto, <le vorrei
attaccare con l’incollatutto a certe zanzare e vespe anormali, che sono nate
senza pungiglione>.
Fu così che anche le zanzare e le vespe se ne andarono felici
a sciamare in giro per il mondo. L’usignola non era neanche entrata in camera
che qualcuno lanciò un sasso contro i vetri, intorno c’era attorcigliato un
biglietto con sopra scritto : ‘Morrai !’, era firmato ‘La zampa nera’.
Nel frattempo l’agnello furioso aveva aggredito e morsicato il
vecchio cane perché voleva andarsene anche lui.
Come al solito, quella sera, l’usignola non poteva dormire. Un
poco era l’amore e un altro poco la paura per quelle minacce di morte. Decise
di uscire per andare a guardare la finestra di lui.
Si
stava mettendo un goccio di profumo al gelsomino, quando qualcuno bussò ai
vetri : era Giuseppe Fa Diesis, con due occhietti spiritati, <Ti debbo
parlare>, le disse.
Mimma uscì a volo felpato, <Io ti amo di amore
nuziale>, sussurrò lui, e tentò di baciarla.
L’usignola
girò il viso paonazzo, allora lui l’abbracciò inginocchiandosi davanti a lei e
osò poggiarle, lentamente, la testa sul seno.
<Lasciami,
caro>, disse Mimma dolcemente.
Gli
sfuggì dalle ali e rientrò nella propria stanza. Da uno spiraglio tra le
imposte cercò di distinguerlo ancora, ma non lo vedeva più.
Le era venuta una bellissima idea : ‘Lo posso guarire! Gli
posso donare il mio ritmo armonioso. Appena lo vedo glielo dico‘.
Era rimasta senza sciampo e così andò al negozio a comprarlo.
Al ritorno gli avrebbe fatto dono del ritmo armonioso.
Non poté resistere alla tentazione di un vestitino lilla per
sé e di una camicia da notte a fiori. Si fece pure un giretto al mercato e vide
che un giovane gatto tutto nero, bellissimo, ma molto malridotto, stracciato e
a piedi nudi, vendeva strana merce. Le fece pena e si avvicinò convinta a
spendere i suoi ultimi soldi per comprare una bambolina di pezza che egli
esibiva in mano.
<Signorina, vuole una bambola di pezza? Un palloncino
buffo di tutti i colori? Una lozione che fa ricrescere i capelli anche ai calvi
da dieci anni?>, chiese lui speranzoso,<Un euro al pezzo, soltanto un
euro>.
‘Chissà se sarà capace di fare crescere la coda ai pavoni ?‘
pensò Mimma, così la comprò per portarla a casa. Infine spese i suoi ultimi
soldi nell’acquisto di un barattolo di miele per l’agnello furioso e si mise in
tasca il resto che le dettero: due euro e cinquantacinque centesimi, tutto il
suo avere.
Contemporaneamente, alla clinica degli
Irrecuperabili, Giuseppe Fa Diesis, con la borsa del ghiaccio fra le mani
perché ancora febbricitante dopo le tensioni amorose della notte precedente, si
guardava allo specchio nella sua stanza : ‘Posso donarle la mia intonatura’ ,
pensava, ‘e lei sarà felice con un altro’.
Si tolse i tappi di cera dalle orecchie e sentì l’urlo
orrendo dei pavoni, che avevano fatto lega con l’agnello furioso : <A morte
l’usignola Mimma>.
Fu troppo per Giuseppe Fa Diesis : vide
una specie di lampo abbagliante, sentì un tuono nel cervello e cadde a terra
svenuto.
Intanto la pavona più giovane e dal cuore buono corse in cerca
dell’usignola per salvarla dalla folla inferocita. Avessero avuto un telefonino
sarebbe stato facilissimo dirle cosa stava accadendo, ma agli irrecuperabili
era severamente vietato. Nella propria stanza Mimma non c’era, in cucina a
mangiucchiare nemmeno, in giardino non c’era, nascosta nella siepe di
pitosforo neanche. La pavona attraversò
tutto il bosco col cuore in gola, perché era una ragazza fondamentalmente
timida, finalmente l’incontrò e l’avvertì. Mimma le diede la lozione contro la
calvizie da applicare in loco, la pavona arrossì, si isolò dietro un cespuglio
e subito apparve una peluria variegata che crebbe, gonfiò, moltiplicò fino a
che divenne, nel giro di pochi minuti, che dico, di secondi, una coda
meravigliosa, con tutti i colori dell’arcobaleno.
Con la lozione stretta al cuore e il miele per l’agnello nell’altra mano, la
pavona tornò alla casa degli Irrecuperabili mentre l’usignola fuggì dalla parte
opposta.
Il roveto osò nascondere la fuggiasca nelle proprie stanze più
segrete, dopo averle preparato un lettino di fortuna. Se avessero scoperto che
dava ricovero ad un’irrecuperabile l’avrebbero estirpato dalle radici.
L’usignola Mimma dormì sonoramente ed era
ancora nel meglio quando il roveto la svegliò scuotendola, aveva visto il
telegiornale e c’erano notizie fresche: i pavoni erano guariti, l’agnello era
diventato mitissimo, pure Giuseppe Fa Diesis aveva riacquistato il senso del ritmo
a causa del trauma ricevuto quando aveva sentito l’orribile urlo: <A morte l’usignola Mimma>.
Così, aggiunsero tutte le spine in coro, erano andati i
genitori con la fidanzata a prenderlo.
<Fidanzato? Era fidanzato ?>, chiese
l’usignola arrossendo. Nella sua fervida fantasia lo vide al braccio di una
bionda procace con grandi ali, grandi boccoli e grande scollatura.
Chinò la testa : <Soltanto io non sono guarita>,
aggiunse sottovoce.
Giuseppe Fa Diesis e Dolcecanto
pigliavano il tè seduti al bar Contralto, il locale più raffinato del bosco.
Lei era comunque bionda, ma senza boccoli.
<Non ti amo più>, le disse lui, <e
non voglio più cantare con te>.
<Allora sei innamorato di un’altra. Chi è
costei, chi è ?>, pigolò sibilando Dolcecanto.
<Nessuna, nessuna>, mentiva lui.
<E’ quella sdolcinata di Beccodoro>.
<No>.
<E’ quell’antipatica di Canterellina>.
< No >.
<E’ quella smorfiosa di Tuttabella>.
< No, no…>.
<E’ quella scimunita di Sepulcria>.
<No, no, no…>.
Dolcecanto gli girò le spalle e, tentando di tenere la schiena
più dritta possibile, lo abbandonò, offesissima, al tavolino del bar. Sarebbe
stata una grossa seccatura trovarsi un altro fidanzato benestante.
Qualche sera più tardi Giuseppe Fa Diesis
si presentò, con le ali tremanti, al nido di mamma e papà usignolo. Si accasciò
sul divano e si sciolse in lacrime.
<Voglio
sposare l’usignola Mimma>, gemeva, <le regalerò il 50% della mia
intonatura e vivremo felici, senza chiedere niente a nessuno>.
<Ma
che dici, figlio mio ?>, gli chiese papà usignolo.
<Col
50% di intonatura farete la fame>, osservò mamma usignola.
<Le
darò io il 50% della mia intonatura> proclamò mamma usignola dopo averci
pensato un attimo.
<No,
moglie, glielo darò io>, disse con voce alta e ferma papà usignolo
battendosi il petto. Gli era insopportabile il pensiero che lei restasse
mutilata.
<Ho
detto che glielo do io>, trillò acutamente mamma usignola. Le era
insopportabile il pensiero che lui restasse mutilato.
<Niente
affatto, glielo voglio dare io perché sono quello che l’ama di più>, si
agitò Giuseppe Fa Diesis.
L’indomani mattina Giuseppe Fa Diesis tornò insieme ai propri
genitori.
<Privarsi
del 50% di intonatura è una mutilazione bella e buona, signori miei>,
declamò il vecchio medico chirurgo del bosco, <ma se ognuno di noi quattro
genitori le desse il 25% di intonatura, la ragazzina sarebbe completamente a
posto e nostro figlio pure. Provvederò io al trapianto di intonatura>.
Detto fatto, il giorno seguente si presentarono dal notaio e
firmarono, con ala ferma, l’atto di donazione. Il vecchio medico chirurgo
distillò la preziosa intonatura e consegnò la provetta a Giuseppe Fa Diesis
raccomandandogli di trovare l’usignola e di fargliela bere fino all’ultima
goccia.
Speranzoso,
il baldo giovine spiccò il volo : 'Non può essere morta' , pensava, 'io l’amo
troppo'.
In quanto ai quattro genitori, si
ritirarono ognuno in un posticino isolato, in fondo al bosco, a provare ciò che
era rimasto della propria voce e a piangere disperatamente per il terribile
sacrificio compiuto.
Il roveto seppe tutte queste novità dalla televisione e
informò l’usignola, che da tutto il giorno se ne stava accasciata in poltrona
facendo finta di leggere un libro di galateo.
<Non
posso accettare un tale sacrificio, roveto>, rispose l’usignola, <debbo
fuggire>.
Si
punse, con una spina, un dito e si macchiò di rosso le piume del petto. Si fece
le trecce,
che
erano la pettinatura preferita delle giovani pettirosse.
Tutte
le spine dicevano che era buffissima e le ridevano in faccia, il roveto,
invece, era preoccupato.
<Vado
a cercare lavoro dai pettirossi, debbo pure guadagnarmi da vivere. Così
mascherata non mi riconoscerà nemmeno il sole>, disse l’usignola con tono
deciso.
<Se
ti pigliano, ti chiudono all’ultimo manicomio e da lì non è uscito mai
nessuno>, sussurrò il roveto, <resta qui, baderò io a te, ho tante
figlie, una più, una meno…>.
Tutte
le spine, in coro, dicevano : <Non andare, non andare>. Cocciuta,
l’usignola spiccò il volo dalla finestra.
Le piume del petto macchiate di sangue attirarono subito le
attenzioni di un baldo pettirosso, un certo Marcello, grande dongiovanni, che
la portò al proprio nido e le presentò sua madre. Lei la esaminò dalla testa ai
piedi con atteggiamento critico, lui le lanciava occhiate di fuoco.
Fu
assunta come domestica seduta stante, ma dovette ben presto involarsi perché il
bel
Marcello
le fece un’ardente richiesta di nozze immediate.
<Dove
scappi, scema>, le gridava correndole appresso ad ali forsennate, <ti
voglio sposare e ti sarò fedele un’ora, forse due. Se ti piglio ti ammazzo>.
Terrorizzata, l’usignola si appiattì contro un masso. Era
finita quasi dentro l’ultimo manicomio, il corvo custode le disse quale fosse
il luogo e le chiese cosa volesse e come si chiamasse.
L’usignola
era cerea e tutti i riccioli le saltavano per aria dalla paura.
Rispose che sfuggiva ad un corteggiatore
sgradito. Il suo nome ? Rosa Scarlatta, il primo nome da pettirossa che le
venne in mente. Dove andava? Dal proprio fidanzato, un uomo aggressivo, geloso
e nerboruto. Forse conosceva la colomba infedele? Mai vista. E sapeva niente
dell’usignola stonata ? Gracchiò nervosamente il corvo. Bisognava impedirle di
bere l’intonatura o sarebbero rimaste mutilate quattro persone.
<Tutti
dicono che è morta>, rispose l’usignola sottovoce.
Arretrò
con un sorriso tremante di saluto, spiccò il volo e cadde in un cespuglio di
margherite gialle, che erano allegrissime e le fecero una gran festa.
Ad ali spalancate, Mimma fuggì a casaccio
per il bosco, inciampando negli zoccoletti con la suola ortopedica.
Si sentiva così sola ed era affamata. Un
albero carico di ciliegie, impietosito, l’invitò a pranzo, ma quando lei
allungò una zampa, comparve una vecchia topa bionda, che la scacciò via
istericamente dalla sua proprietà.
L’usignola riprese il volo a zigzag. Si trovava in tasca quei
pochi soldi di resto che le aveva dato il gatto nero al mercato e non sapeva
dove andare né dove avrebbe potuto
passare
la notte.
Sorpassò
un giardino carico di zinnie, che chiacchieravano coi garofani di Spagna
raccontandosi barzellette botaniche. Alla finestra del proprio cespuglio di
margherite una farfalla orribilmente grassa guardava le sue simili, che
danzavano piroettando più leggere dell’aria. I suoi occhi erano due laghi di
dolore azzurro. ‘Chissà quant’è infelice pure lei, povera creatura‘, pensò
l’usignola, ‘proprio come me, che non posso cantare'.
Volò ancora, a lungo. Sotto di lei sembrava che il bosco non
dovesse finire mai e veniva un tramonto rosso, con nuvoloni blu allegrissimi e
sventati.
‘
Potrebbe anche piovere e ho sonno ‘, pensò sentendosi le ali grevi.
Si
fermò a un bar dove ordinò due brioches con una tazza di latte tiepido. Era
quanto potesse permettersi. Tutti la guardavano incuriositi ammirandola in cuor
loro e l’usignola si ingozzò in fretta un po’ per la fame e un po’ per il
disagio. Lasciò gli ultimi centesimi di mancia sul tavolino, uscì con sollievo
dalla pasticceria e si guardò attorno.
Vide, poco più avanti, su una collina, una specie di torre
merlata intorno a cui volavano le colombe e un muro diroccato tutto ricoperto
dall’edera. Di fronte c’era una vecchia fontana senz’acqua, decorata da un
puttino di farfalla librato a volo. L’ampia conca della
vasca
era strapiena di spazzatura abbandonata lì dentro dai turisti maleducati.
<
Vuoi che ti pulisca la conca da tutta quella sporcizia? Hai bisogno di una
domestica ? >, chiese l’usignola. La fontana non le rispose perché faceva
finta di essere morta, tanta era la vergogna per essere rimasta secca e
sterile.
L’edera, che abitava di fronte, le sorrise amichevole : <Ti
occorre una camera ? Io faccio prezzi modici>.
L’usignola
inghiottì a vuoto avvampando: <Ho perduto il portafogli> mentì a bassa
voce.
<Mi
pagherai quando ti sarà possibile>, rispose l’edera, <non ti lascio
dormire per strada. Entra pure>.
La
portò in una stanzetta minuscola, ma pulitissima e bene arredata. Le offrì
delle paste e un vermuttino. Insisté perché Mimma mangiasse proprio tutto.
Infine le confidò le sue pene d’amore : <Vedi questo muro al quale sempre mi
attacco? Non mi vuole affatto bene, ormai sono anni e anni, sto perdendo la
speranza che un giorno mi parli. Ha proprio un cuore di pietra>.
Non era facile trovare un lavoro e questo l’usignola lo sapeva
benissimo. Le chiedevano la carta d’identità. <Sono una pettirossa
fuggiasca>, affermava lei indicando il seno macchiato di sangue. La gente
non si fidava.
Non
avendo più come vestirsi, cucì insieme petali di geranio, margherite e garofani
di Spagna, tagliò un modellino semplice semplice e, finalmente, poté cambiarsi.
Si appuntò le trecce sul cocuzzolo, convinta che così fosse irriconoscibile.
Il sole, quella mattina, si era messo un
buffo cappelluccio sulle ventitré e la cravatta a pallini. Una schiera di
colombi faceva i turni per tuffarsi nel fiume, che abitava più avanti.
Da lontano la fontana guardava di
nascosto il colore dorato dell’acqua che scorreva e il puttino si sentiva
struggere il cuore.
‘Fa
troppo caldo‘, pensò l’usignola, ‘vado a vedere cose c’è oggi nella vetrina
della colomba Angelica e me ne torno a casa‘.
La
colomba Angelica, detta infedele, in realtà non aveva mai avuto un fidanzato
perché ancora non s’era innamorata, pur avendo da un bel po’ l’età giusta per
il matrimonio. Così le avevano messo addosso quell’etichetta e i suoi simili la
guardavano storto, i maschi perché diceva a tutti di no e le femmine perché
erano gelose di tanta bellezza e fortuna.
Difatti
Angelica gestiva un’avviatissima boutique nel centro del prato e vestiva tutte
le signore della buona società, perfino la marchesa De Grillonibus, che era di
gusti difficili.
Quando
la colomba vide quella stupenda pettirossa davanti alla sua vetrina, le chiese
chi mai le avesse confezionato un abito talmente insolito e raffinato.
Mimma
puntò l’indice contro se stessa e disse: <Io>.
Venne
invitata ad entrare e fatta accomodare in poltrona, con i piedi sollevati su un
pouf ed il ventilatore acceso davanti. Si sentiva una regina sul trono.
Fu
così che trovò lavoro : disegnare stoffe e modelli. ‘ Credevo di sentirmi
felice ‘, pensava l’usignola, ‘e invece … ’.
Adesso
aveva tutto il cibo e gli abiti che voleva, ma pensava sempre a Giuseppe Fa
Diesis.
Sapeva
dal telegiornale che la cercava ancora, l’avevano pure intervistato. Era
dimagrito così tanto. ‘Lo dimenticherò, mi dimenticherà‘, pensava Mimma, era
ancora una fanciulla e non sapeva che il vero amore è eterno e non si può
dimenticare.
Fu allora che la colomba Angelica si innamorò. Lui era un
poveraccio, andava avanti a panini e mortadella e trasportava pessime stoffe su
una sconquassata utilitaria, che stava insieme per forza di volontà, proprio
per quanto era affezionata al suo padrone. Non era bello, ma simpatico sì. La
colomba Angelica gli propose di fare il piazzista per lei, gli contò il primo
mese anticipato e lui l’invitò a cena troppo in fretta, così come lei troppo in
fretta rispose di sì.
La notte seguente ci fu talmente caldo che il puttino della
fontana incominciò a vagire lamentosamente. L’usignola si alzò e corse al
ruscello per fare bere un secchio d’acqua alla fontana. ‘ Allora non è morta ‘
pensava felice.
L’indomani cambiò pettinatura. Preparò
una lozione con un quarto di resina di pino e tre quarti di acqua, si lisciò i
capelli e li tagliò corti. ‘Se lui passerà di qui non mi potrà riconoscere‘, pensava.
Un
papavero, che si era preso una cotta per lei, le saltò in testa rimanendoci
incollato. Invadente e festaiolo come tutti i papaveri, le sussurrava
complimenti in continuazione.
Per il matrimonio della colomba Angelica si confezionò un
tubino lungo color notte stellata con fusciacca di velo d’aurora. Ebbe molto
successo e tutte le donne ne furono gelose.
Gli
sposi erano talmente felici che l’usignola non li poteva guardare senza che il
cuore le si
torcesse
nel petto. Trattandosi di colombi, tutta la sala era adornata con pannocchie di
granturco.
Prima di partire, la sposa le lanciò il mazzolino di fiori.
Mimma lo buttò, senza farsene accorgere, fra le zampe di una passerotta
spennacchiata, che aveva fatto tappezzeria tutta la sera. Subito un passero
alto, elegante, in giacca e cravatta blu, l’invitò a ballare. Lei alzò due
occhi radiosi su di lui, senza fare caso all’abbondante calvizie.
'Ci si abitua a tutto‘ , pensava
l’usignola tornando a casa, ‘ essi si abitueranno all’amore ed io al dolore‘.
Fra
i suoi capelli, strettamente avvinghiato, c’era il papavero semiappassito.
Mimma
gli mise i piedi a mollo in un secchio d’acqua, <Esci subito dalla stanza di
una signorina>, lo ammonì.
Coi
piedi gocciolanti, il papavero uscì.
Il giorno successivo il sole si svegliò con l’indigestione.
Tutte le nuvole, accaldate, si erano tuffate in mare per farsi un bel bagno. Il
sole si mise a strillare:
<Venite
su a coprirmi, sto bruciando tutto il bosco>.
L’usignola
sentì il forte grido della fontana e le ali del puttino incominciarono a
spaccarsi. Scappò subito con un secchio d’acqua, ma ebbe appena il tempo di
versarlo nella conca screpolata che si sentì male, malissimo. Si rivolse al
sole:
<
Non bruciarci così >, pigolò.
In
quel momento il sole riconobbe la voce dell’usignola stonata, vide che era
mascherata da pettirossa e incominciò a gridare : <Alzati! Alzati, mettiti
al riparo>.
Ma
lei cadde a terra svenuta.
<Alzati,
torna a casa>, il sole si mise a piangere lacrime di fuoco.
L’usignola si guardò attorno. Tutti i colori erano cambiati e
davanti a lei, sopra un albero dai fiori strani, c’era un usignolo di grande
bellezza, che sembrava fatto di aria nell’aria.
<Dove
sono?>, chiese.
<Sei
nel Paradiso degli usignoli>.
Mimma
si sentì galleggiare in canti mai ascoltati. Provava una dolcissima pace in
ogni piuma.
Egli
la guardò con intensità e le sorrise : <Bel Canto>, gorgheggiò.
L’usignola
non si stupì che conoscesse il suo vero nome.
<In
tutta la vita non hai fatto che amare. Guarda>.
L’usignola
vide la clinica degli Irrecuperabili, ormai trasformata in Istituto di
bellezza. <Li hai guariti tutti>, disse l’usignolo di luce, <guarda
come sono felici e come si ricordano di te>.
Perfino
il vecchio cane teneva la sua fotografia sulla scrivania, <Ma come, ma se
non mi poteva vedere>, strabiliò l’usignola.
<L’amore
è potente>, cantò l’usignolo di luce. <Adesso chiedimi tutto quello che
vuoi ed io te lo darò>.
<Ma
la mamma diceva che l’erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del re!>.
L’usignolo
si mise a ridere : <In Paradiso nasce>, rispose. Era tutto scoppiettante
di allegria.
<Voglio
… per favore, che Giuseppe Fa Diesis sia felice>.
<Sarà
felice>.
<E
che le erbe, i fiori, il ruscello, la fontana e gli animali non muoiano per la
siccità>.
<Vivranno>.
<E
puoi pure restituire l’acqua alla fontana?>.
<Avrà
l’acqua>.
<E
che i nostri genitori non si privino di un quarto di intonatura per me>.
<Non
saranno privati>.
<E
che il muro si innamori dell’edera. Questo è proprio impossibile>.
<L’amerà>.
<Grazie.
E che il roveto abbia il dono di fiorire>.
<Su
ogni spina nascerà un mazzetto bianco e profumato. Ma per te, che vuoi?>.
<Per
me?>.
<Per
te, Bel Canto>.
Era
per lei un tale refrigerio sentirsi chiamare col proprio vero nome da
quell’essere stupendo, che le mostrava tanto affetto.
<Fammi
cantare>, mormorò.
<Canterai>.
<E
come?>.
<Alla
maniera celeste. Canterai perché chi ama canta>.
<Canterò
il repertorio dell’usignolo?>.
<No.
Canterai il canto celeste>.
<Ma
io so che era perduto per noi>.
<Perché
avevate perduto l’amore>.
<Ma
…>.
<Apri
la bocca e canta>.
L’usignola
obbedì e dette un gorgheggio soave, poi un altro e un altro ancora. Cantò a
lungo, a piena voce, e nemmeno una nota tremò o stridette.
Si
volse all’usignolo di luce, che l’ascoltava ridente.
‘Sono
tanto felice con te ‘ , pensò intensamente.
<Ma
Giuseppe Fa Diesis non può essere felice senza di te>, rispose lui. E
disparve lentamente.
L’usignola giaceva sempre riversa ai piedi della fontana
mentre il sole si buttava le mani fra i capelli.
‘E’
morta‘, pensò la fontana, e le si spezzò il cuore dalla sofferenza. Dal
profondo di quella ferita schizzò il getto di una falda acquifera sotterranea,
freschissima e pura, che stava lì sotto da sempre, anche se nessuno lo sapeva.
Subito
la conca si riempì, l’acqua traboccò impetuosamente, raggiunse l’usignola e la
bagnò cancellando la macchia di sangue sul petto.
Giuseppe
Fa Diesis stava esplorando col binocolo giusto quei dintorni e la riconobbe
subito, anche se non aveva più i suoi riccioli così belli.
<E’
lei>, gridò, <è morta. Troppo tardi! Troppo tardi !>.
La
prese tra le braccia. Era tanto dimagrita. Era tanto leggera. Intanto
arrivarono le nuvole e incominciò a diluviare. Accorsero gli amici e i
conoscenti dell’usignola: l’edera, la colomba Angelica col marito Francesco, le
sarte della boutique, le clienti con la marchesa De Grillonibus e tutti i suoi
corteggiatori.
Ben presto la tragica notizia si sparse
dapertutto e i genitori, straziati, si serrarono in casa per dare inizio al
lutto. Anche i suoceri piangevano e singhiozzavano.
Ma
all’improvviso l’usignola sospirò e rialzò la testa. <Non è morta, era solo
svenuta>, gridò giulivo un grillo verde smeraldo, e saltò a rettificare le
cose.
Mamma
e papà usignolo, coi suoceri, si precipitarono appresso al grillo. Senza
pensarci, presi da gioia folle, attaccarono la sinfonia più difficile del
repertorio degli usignoli e la cantarono dall’inizio alla fine, secondo le
regole, come se mai si fossero privati di un quarto di intonatura per uno.
Sorvolarono
il roveto, che era tutto fiorito. Era stato il trauma. Quel vecchio cuore che
batteva in fondo al tronco aveva creduto di morire prima per il dolore e dopo
per la gioia e d’impeto, in testa ad ogni spina, era nato un cappellino
fragrante.
L’usignola mormorò : < Acqua, acqua …>.
<Bevi
questa, amore, ti farà bene subito>, disse Giuseppe Fa Diesis mettendole nel
becco la boccetta dell’intonatura, che lei fece fuori fino all’ultima goccia.
<Come
sono felice>, ripeteva lui.
<
Sei tu, sei felice … >, voleva dirgli l’usignola, ma non poté pronunziare
parola perché le venne un canto irruente. Gorgheggiò a lungo mentre tutti
trattenevano il respiro cadendo in catalessi. La colomba Angelica stava per
svenire pure lei dall’emozione tanto che il marito Francesco dovette darle una
sberla. Le farfalle caddero a terra prive di sensi a pancia all’aria, con
atteggiamento ben poco dignitoso per la loro vanità. Le nuvole erano in stato
collassiale, < Oh, come mi sento debole >, si lamentò perfino il sole.
L’edera,
per un breve attimo, ebbe una specie di mancamento e abbandonò il muro,
<Non
lasciarmi, cara>, disse lui con voce cavernosa, <ti amo anch’io>.
Molti
gerani e margherite più anzianucci persero i petali per eccesso di canto,
infine arrivarono in massa gli usignoli del bosco. Giuseppe Fa Diesis li
minacciò col pugno temendo che volessero arrestarla, ma essi la guardarono con
sommo rispetto e riconobbero che quel genere di gorgheggio era al di sopra del
rigo musicale. <Non potremmo assolutamente imitarlo, nemmeno in minima parte
>, confessarono stupefatti. Ed invitarono l’usignola ad esibirsi, fuori
concorso, al Festival delle voci eccelse.
Intanto la moglie del grillo aveva raggiunto il marito e,
insieme coi genitori e i suoceri dell’usignola, volavano, cantavano e saltavano
avvicinandosi sempre più.
Il
colombo Francesco, sentendosi piacevolmente brillo, come se si fosse bevuto due
o tre bicchierotti di quello buono, diede inizio alle danze, subito imitata
dalla bella moglie, ancora pallida di emozione, e da alcuni usignoli bambini,
che si misero a fare il girotondo tenendosi per le ali in mezzo alle nuvole
ormai tornate in sé e tutte vogliose di raccontarsi a vicenda la gran cosa
avvenuta. Pure il sole si sentiva meglio, con le tempeste atomiche nuovamente a
posto. I papaveri rialzarono il capo più rossi che mai, in quanto ai colombi,
grandi innamorati dell’amore e della fedeltà, stavano tutti piangendo commossi
con un sorriso ebete sulla bocca.
Il sole, con due occhietti languidi e compiaciuti, ammirava il
primo bacio d’amore tra i due fidanzati.
Giuseppe
Fa Diesis prese il volto radioso dell’usignola fra le sue mani:
<Io
ti amo di amore nuziale >, le sussurrò tutto rosso.
Era
la stessa frase di tanto tempo prima.
L’usignola
riprese impetuosamente il gorgheggio, lui dapprima a stento, via via più
sicuro, iniziò il controcanto.
Mimma
spalancò gli occhi nella luce mentre il cuore le scoppiava di gioia.
Domenica
Luise
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